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L’influenza di Edward Hopper nel mondo cinematografico

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Definito da molti “il pittore con l’occhio cinematico”, Edward Hopper (1882-1967) con la sua arte ha inevitabilmente influenzato il mondo cinematografico. In questo piccolo excursus vedremo come il newyorkese ha potuto svolgere un ruolo tanto importante quanto inaspettato.

Il realismo americano, movimento di cui è esponente principale, offre solo una delle mille chiavi interpretative del suo lavoro; potremmo dire che relegarlo a questo mero ruolo sarebbe a dir poco riduttivo. Lo sguardo di Hopper è, in effetti, inclassificabile: questo perché non si limita ad una scelta di stile ma si spinge oltre per indagare cosa si nasconde nell’animo umano e cercare, spesso senza successo, risposta ai grandi quesiti esistenziali che lo tormentano. Per fare ciò si avvale di un sistema rappresentativo di immediata comprensione, candidamente interpretabile anche dal meno avvezzo all’arte ed ai suoi schemi. Un ruolo fondamentale in questa trasmissione di significato è giocato dalle atmosfere, dalle ombre consistenti, dalle luci taglienti, dalla composizione della scena ed innumerevoli altri accorgimenti tipicamente cinematografici che compongono il quadro.

Alcuni dei film che hanno tratto ispirazione dalle opere di Hopper

Veniamo al cuore del tema che ci siamo ripromessi di trattare ovvero i film (e, di conseguenza, i registi) che hanno portato sul grande schermo un frammento, una visione, dell’universo di Edward Hopper.

L’ombra del dubbio (1943) di Alfred Hitchcock

Un punto di contatto e di scambio reciproco tra Hitchcock e Hopper è quel senso di nostalgia irrazionale che funge da filo conduttore della loro intera carriera. Ne “L’ombra del dubbio” questo sentimento emerge dalle scelte compositive del regista londinese: dagli scorci di porte e finestre fino alla disposizione spaziale dei personaggi. Contribuiscono a rendere ancor più palese l’omaggio al pittore la scelta di location ampiamente ispirate ai suoi lavori.

Giorni perduti (1945) di Billy Wilder

Nella trama di The lost weekend, il protagonista (Ray Milland – premio Oscar come miglior attore) affoga i suoi insuccessi nell’alcol, rimpiangendo i giorni perduti. Un quadro emotivo che prende vita sullo sfondo di una New York di metà Novecento, la stessa conosciuta e ritratta da Hopper. Interessante l’uso delle diagonali che esaltano l’immobilismo dei personaggi, come su tela anche su pellicola.

Le forze del male (1948) di Abraham Polonsky

Un film di denuncia sociale travestito da classico noir, così potremmo definire in poche battute Force of Evil. Polonsky attinge dal repertorio del pittore, per quale prova una profonda ammirazione, per ripercorrerne i luoghi, i temi e la luce. Tale era il desiderio di riuscire nel suo intendo che accompagnò George Barnes, direttore della fotografia, ad una mostra delle opere di Hopper per ispirarlo ed offrirgli una traccia.

La finestra sul cortile (1954) di Alfred Hitchcock

Abbiamo già parlato della stima reciproca che lega i due visionari, una stima che ne La finestra sul cortile trova nuova conferma. Se, in precedenza, erano stati messi in opera dei delicati richiami, riconoscibili ad un occhio più esperto, qui il rimando ad uno schema ricorrente nelle tele dell’americano è palese: mi riferisco sia a substrati psicologici come il voyeurismo e la solitudine sia alle inquadrature di soggetti inconsapevoli colti da una finestra.

Psycho (1960) di Alfred Hitchcock

Gli appassionati di Edward Hopper noteranno forse una certa somiglianza tra la Bates House, il solitario motel nei pressi di Phoenix dove Marion trova la morte, e “The House by the Railroad” (1925). Non si tratta di una casualità ma di un esplicito fortunato riferimento.

Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni

Zabriskie Point ci porta nell’America hippie degli anni ’60, un periodo di fermento e di movimento che si contrappone alla profonda solitudine dei personaggi che si muovono sullo sfondo di un deserto californiano. Un’indagine sulla controcultura statunitense ben architettata nelle tematiche quanto nell’impianto visivo tipicamente hopperiano.

Profondo rosso (1975) di Dario Argento

Dario Argento riporta in scena molti elementi amati e sintetizzati dall’artista. Al di là delle fedeli citazioni, come l’inquadratura e l’architettura del Blue Bar (vedi Nighthawks), mi ha colpita particolarmente il modo in cui i personaggi non si muovono lasciando quel senso di sospeso atemporale, marchio di fabbrica dello statunitense qui omaggiato.

I giorni del cielo (1978) di Terrence Malick

Un rimando pressoché letterale è quello contenuto in Days of Heaven. Infatti, la casa al centro dell’intera vicenda, che domina un paesaggio altrimenti privo di presenza umana, altro non è che la trasposizione cinematografica di “House by the Railroad” (1925).

Manhattan (1979) di Woody Allen

Edward Hopper e Woody Allen condividono un amore viscerale per la loro città natale New York, un amore tutt’altro che ideale e platonico, piuttosto lo definirei consapevole e tagliente. Entrambi vedono e ritraggono una città sporca, a tratti soffocante eppure non per questo meno poetica ed affascinante: particolarmente d’impatto il parallelismo tra le due rappresentazioni del ponte sulla 52esima strada.

Spiccioli dal cielo (1981) di Hebert Ross

Il musical Pennies from Heaven ricrea alla lettera i Nottambuli (Nighthawks) del locale Phillies.

Blade runner (1982) di Ridley Scott

Il regista stesso ha dichiarato di aver compulsivamente sventolato nel corso delle riprese una riproduzione di Nighthawks per comunicare al meglio al suo team il mood che stava cercando e che intendeva trasmettere con il suo futuristico film.

Velluto blu (1986) di David Lynch

Il maestro dell’inquietudine cinematografica David Lynch si dichiara un grande estimatore di Hopper. Un’ammirazione che rimane impressa sulla pellicola Blue Velvet dove l’uso del colore ma, soprattutto, di luci ed ombre violentissime contribuisce attivamente a conferire quell’inconfondibile sapore noir.


Quali film tra quelli citati avete visto? Vi eravate accorti del fantasma di Edward Hopper dietro alcuni di questi?

Vi lascio con una personale considerazione: il percorso di oggi conferma, ancora una volta, che siamo l’esito del mondo in cui viviamo e degli stimoli che abbiamo accumulato. Ciò non vuol dire che l’originalità è morta ma che, semplicemente, l’originalità oggi è una reinterpretazione autentica dell’esperienza.

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